Ceresole per noi, famiglia Caccia
di Paola Caccia, figlia del Procuratore Bruno Caccia, ucciso per mafia il 26 Giugno 1983
Quando è morto, dopo lo strazio e lo smarrimento dei primi tempi, è qui che ho ritrovato mio padre. Ho sentito la sua voce risuonare tra i vecchi muri della sua casa, alla presenza di nonni e antenati. L’ho visto curvo nel suo orto, l’ho sentito trafficare nella stanza da lavoro. L’ho seguito nelle sue “passeggiatine veloci” e, timidamente, me lo sono fatto un po’ raccontare da quanti lo avevano conosciuto. Ne è venuto fuori un misto di stima verso “l’avucat”, a cui molti chiedevano consiglio, e di affetto per la persona semplice e cordiale che si fermava a chiacchierare in piemontese mentre andava a comprare un attrezzo o un pacchetto di verderame.
Ceresole era per noi, da bambini, un posto tranquillo in cui giungevamo a settembre per rimanerci fino ad autunno inoltrato. Una vecchia casa mai completamente esplorata, gli austeri nonni paterni, i letti altissimi, un antico giardino un po’ buio e misterioso, di quelli col ghiaino di fiume e le siepi di bosso. Dietro la casa, la cascina con la famiglia dei contadini e il nostro territorio di avventura: il cortile con la tampa, una grande stalla e il fienile; e poi animali, pannocchie, carri e trattori. Un mondo che a noi bambini di città appariva variopinto e pieno di odori, di cose vecchie e oggetti curiosi, di abitudini antiche, di persone forti che lavoravano sodo e parlavano ad alta voce.
Nella grande casa, in quegli anni tra i Cinquanta e i Sessanta del secolo scorso, c’erano spesso anche gli zii, con le cuginette. Passavamo le giornate a esplorare il giardino e a giocare in cortile.
Mia mamma, cittadina, estroversa, era un po’ insofferente della parsimonia che vigeva in questa casa, per cui a volte si battibeccava con la nonna. Si preoccupava per i possibili pericoli della vita in campagna: aveva paura che cadessimo nella tampa, che fossimo morsi dai cani, che l’acqua del pozzo ci facesse male…, ma comunque noi ci sentivamo sempre molto più liberi che in città.
Mia zia lavorava a maglia, sorniona, con ai piedi il gatto di turno; il nonno, anch’egli magistrato, autorevole ma timido e riservato, faceva vita a sé: curava le sue aiuole (bocche di leone, petunie, zinnie, dalie, rose), disegnava, aggiustava piccoli oggetti. Aveva i suoi spazi – tavolini, scrivanie – ingombri di piattini, polveri, colle, matite, coltellini. Oppure leggeva sulla sua poltrona. Lo osservavo passandogli vicino, ma raramente osavo rivolgergli la parola.
Mio padre compariva verso sera. Veniva a godersi la famiglia e il fresco della grande casa dopo la giornata di lavoro. Col nonno si occupava della cascina, discutendo con i contadini della famiglia Burzio (Luisòt, Nino e Augusto) di raccolti, vitelli, pioppi. A Ceresole parlava solo in piemontese. Lo chiamavano l’avucat, come mio nonno.
A volte in giardino c’erano ospiti, amici o i parenti della casa vicina. Grandi circoli di gente seduta all’ombra, da cui si levava un chiacchiericcio animato. Più spesso, verso il tramonto, uscivamo a passeggio, a volte con le nostre biciclette o spingendo la carrozzina di mia sorella. L’atmosfera era distesa. I vasti prati brucati da mucche bianche fanno da sfondo ai miei ricordi. Mio padre era soddisfatto: per lui, allora come più tardi, essere a Ceresole significava aver raggiunto un porto sicuro. Si guardava intorno, sorridente, ammirava i monti in lontananza, osservava le coltivazioni e ogni tanto esclamava: «Ah, come si sta bene a Ceresulìn!».
Poi, dalla fine degli anni Sessanta, in campagna non ci siamo quasi più andati, almeno noi ragazzi, che passavamo lunghe estati al mare e in autunno andavamo a scuola. Quando i nonni sono morti, mio padre e mio zio hanno deciso di dividere e fare ristrutturare la grande casa, ormai molto malandata. Eravamo intanto negli anni Settanta e confesso che a me, diciottenne, sembrava che ci fossimo imbarcati in un’impresa troppo ardua, uno spreco di fatica e di denaro. Non tardai molto, però, a capire quanto invece ci tenesse mio padre.
Parallelamente alla ristrutturazione della casa, alla quale anche mia mamma – dapprima un po’ scettica – si era appassionata, e agli infiniti lavori di restauro, bricolage, pitture, spostamenti di mobili…, mio padre si era dedicato alla risistemazione del giardino, per renderlo meno cupo di come era diventato dopo anni di incuria e, soprattutto, per reimpiantare un orto nella parte più soleggiata.
Qui aveva già coltivato durante la guerra, quando la famiglia era sfollata a Ceresole, e coltivando intendeva ora riassaporare quell’intima soddisfazione e ritrovare quel senso di completezza che manca a chi vive in un appartamento di città. D’altra parte, se penso a lui, non posso fare a meno di vederlo con in mano un paio di cesoie o un annaffiatoio, o una bustina di semi: in ogni casa o appartamento in cui abbiamo abitato, si prendeva cura di qualche pianta; in ogni “passeggiatina veloce” che usava fare in qualunque posto si trovasse, osservava piante, orti e giardini, facendo qualche commento di ammirazione. In poco tempo, in effetti, aveva raggiunto risultati davvero soddisfacenti: sebbene riuscisse a venirci solo nei week end e in qualche furtiva scappata infrasettimanale, il suo orto appariva ordinato e curato e i suoi ortaggi erano spesso “da esposizione”. Gli piaceva confrontarsi con i conoscenti del posto per chiedere consigli, per discutere su tecniche di coltivazione che sperimentava da autodidatta, o per pavoneggiarsi di qualche risultato eccellente: c’è chi ricorda l’occasione in cui andò da Renzo Olivero, proprietario del negozio di alimentari, per mostrare un enorme, perfetto, invidiabile pomodoro di cui andava particolarmente fiero.
E una volta, seduti sulla panca del giardino, lui e la mamma facevano programmi per l’estate. Lei cercava di portarlo in America, mostrandogli allettanti dépliants. Lui rispondeva che sì, ci sarebbe andato, ma che in fondo si stava molto bene anche lì, a Ceresole, su quella panca, a guardare l’America sui dépliants. E poi non ci andarono più, perché quella era la primavera dell’’83.
Certo, sono sicura che, mentre era intento a vangare, estirpare erbacce, legare piantine o togliere “ascelle” ai pomodori, mio padre si rilassasse e, mettendo da parte le sue più grosse preoccupazioni, si rigenerasse. E chissà che questo riposo dello spirito non gli servisse a riordinare le idee, a riflettere sulle questioni di lavoro, su processi e sentenze di cui peraltro non parlava con nessuno di noi. Tornava a Torino stanco fisicamente, bruciato dal sole, gratificato. Portava con sé verdure appena colte che amava cucinare lui stesso, per mangiarle poi con gusto, o che a volte regalava raccogliendone con orgoglio gli elogi. Portava mazzetti di pervinche e qualche rosa di giardino: quelle stesse che ora mettiamo ogni tanto sulla lapide che, a Torino, ricorda il suo sacrificio. Era una persona semplice, e di piaceri semplici si contentava.
Nella stagione fredda, a Ceresole, amava accendere stufa e camini, coprirsi con vecchi indumenti pesanti, sempre gli stessi maglioni e scarponi militari; e fare passeggiate all’alba, lui che era mattiniero, sul terreno gelato. Ricordo la mattina di una brinata eccezionale in cui siamo usciti presto, appena sorto il sole, e abbiamo camminato nel freddo pungente, nel bianco dei cristalli e nel blu del cielo, davanti all’arco alpino che si stagliava nell’aria tersa dell’inverno. Mio padre era eccitato, camminava ancora più veloce del solito continuando ad esclamare: «Che spettacolo!».
E belle, lunghe passeggiate invernali abbiamo fatto ancora nelle vacanze di Natale dell’’82, le sue ultime, con mio marito e mia figlia, che aveva allora due anni, e il cane. Ero contenta perché sapevo che quelle vacanze con noi e con la nipotina gli davano la soddisfazione di sentire che lì, nella casa dei suoi antenati, ora c’erano e si trovavano bene le nuove generazioni della sua famiglia, a cui era riuscito a trasmettere l’amore per la terra delle sue radici.
Quando è morto, dopo lo strazio e lo smarrimento dei primi tempi, è qui che ho ritrovato mio padre.
Ho sentito la sua voce risuonare tra i vecchi muri della sua casa, alla presenza di nonni e antenati. L’ho visto curvo nel suo orto, l’ho sentito trafficare nella stanza da lavoro. L’ho seguito nelle sue “passeggiatine veloci” e, timidamente, me lo sono fatto un po’ raccontare da quanti lo avevano conosciuto. Ne è venuto fuori un misto di stima verso “l’avucat”, a cui molti chiedevano consiglio, e di affetto per la persona semplice e cordiale che si fermava a chiacchierare in piemontese mentre andava a comprare un attrezzo o un pacchetto di verderame.
E anche se riposa poco lontano, nel cimitero tra i campi dove quest’inverno lo ha raggiunto nostra madre, ancora oggi lo sento vicino mentre armeggio maldestramente con la vanga nell’orto o mentre richiudo al tramonto le innumerevoli finestre aperte per arieggiare la vecchia grande casa di Ceresole.
Leggi anche gli altri articoli dedicati a Bruno Caccia:
– “Nessuno pronunci il suo nome invano”, di Marcello Maddalena
– “Il mio maestro Bruno Caccia”, di Giancarlo Caselli
– “Bruno Caccia, un servitore dello Stato”, di Piermario Demichelis
QUESTO ARTICOLO E’ APPARSO SUL N. UNO di “Roero Terra Ritrovata”
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