L’impronta di un giovane prete sulle strade di Piobesi
Don Coccino, 1858-1922
di Letizia Battaglino e Serena Micca
Il 12 dicembre 1999 a Piobesi s’inaugurava il nuovo edificio scolastico intitolato a don Giovanni Coccino. Come molti altri giovani piobesini, anche io avevo atteso con ansia che i lavori della nuova struttura terminassero: l’avevo vista crescere mese dopo mese, stagione dopo stagione dalle finestre del vecchio edificio scolastico situato accanto al Municipio (e proprio di fronte alla nuova sede), immaginando di poter usufruire dei suoi grandi spazi, del cortile, della terrazza, del bell’anfiteatro. Alle compagne e ai compagni della mia leva il potere della fantasia e dell’immaginazione, perché in quella scuola non riuscimmo ad andare: lasciai “l’eredità” a mia sorella che, incredibilmente, nell’anno in cui io iniziai le scuole medie, lei entrò nel mondo delle elementari, e proprio nell’edificio nuovo di zecca!
Grandi spazi, si diceva. Eppure una scuola a misura di ragazzo, con aule illuminate, funzionali e colorate, il profumo di nuovo mescolato a quello delle matite temperate, dei gessetti, ai sapori della cucina di Anna Basso, la cuoca di tutti noi ragazzi: davvero un privilegio, studiare e crescere ina struttura simile. Ma chi era la figura di sacerdote cui è stata intitolata la scuola?
Giovanni Coccino nacque tra le alte colline di Levice nel 1858: un figlio di Langa, di quella Langa aspra e dura che sta molto sopra Alba, già un po’ con la testa rivolta alla Liguria. Entrò nel seminario albese nel 1873 e a soli 23 anni fu ordinato sacerdote. Venne mandato prima come vicecurato a Montà, poi come parroco a Piobesi, il 10 giugno 1883: qui rimarrà ben 39 anni, fino alla sua morte sopraggiunta l’11 giugno 1922.
Il reverendo Don Agostino Vigolungo lo descrisse nell’elogio funebre come un uomo attivo, prudente e virtuoso: «Ricordo il suo camminare sempre a testa alta, con gli occhi fissi al cielo per non perdere di vista la volontà di Dio, due occhi dallo sguardo intelligente».
Non si può in questa sede non ricordare che il suo primo pensiero da parroco a Piobesi fu rivolto ai suoi parrocchiani e alla loro salvezza: «Alla salute delle anime pensava di continuo, studiava i mezzi per mettersi tosto all’opera con zelo e con la tenacia dell’apostolo», disse ancora Vigolungo. Quindi si dedicò allo stato economico e igienico della sua parrocchia e ne trovò le condizioni non troppo lusinghiere. Le campagne davano un reddito insufficiente per un onesto sostentamento dei suoi abitanti, le cui abitazioni erano poco salubri e gli stili di vita spesso al di sotto di una soglia dignitosa. L’arciprete studiò questo fatto e si confermò che non può attendere con tranquillità a Dio quel popolo che è preoccupato delle questioni del pane.
Incurante di coloro che avrebbero preferito un prete rintanato in sacrestia, cominciò a tenere dotte conferenze su questioni economiche e agrarie e si recò di persona nei prati, nei vigneti e nei campi per insegnare come si coltivavano i diversi prodotti, la possibilità di moltiplicare il raccolto del frumento e la coltura dei bachi. Contemporaneamente studiò idraulica, chimica, elettricità, medicina e finanze, per promuovere il risanamento del paese e la costruzione degli impianti dell’acqua potabile e della luce, per curare malattie, per consigliare e aiutare i suoi parrocchiani nei loro affari finanziari.
Francesco Careglio (che nel 1922 aveva solo tre anni) lo ricordò con ammirazione in un’intervista del 1999, citando la tenacia del prete nell’ottenere insegnanti per l’istruzione dei piccoli e degli adulti presso il Circolo Cattolico, da lui ideato e condotto. Durante questa intervista, il signor Careglio disse che l’abitazione del parroco (la canonica) era situata proprio nel luogo dove si trova l’attuale scuola a lui intitolata.
Don Coccino fondò nel 1894 la Cassa rurale di Piobesi d’Alba, prima in diocesi, imboccando una nuova strada che presto fu seguita da altri paesi. L’obiettivo era combattere l’usura, offrire credito ai contadini, favorire e tutelare il risparmio, nell’ambito di un’opera sociale rivolta alla gente che le banche allora non svolgevano, finendo così col decretare il trionfo dello strozzinaggio privato. I capitali messi a disposizione dell’agricoltura favorirono la produttività e quindi determinarono l’avvio di uno sviluppo sociale e civile.
Insieme a don Carlo Rizzoglio, maestro elementare a Piobesi, don Coccino fu per molti anni l’animatore lungimirante dell’azione sociale dell’Opera dei Congressi e promosse la costituzione di molte altre Casse Rurali, che nel 1895 si riunirono in una federazione diocesana.
Si costituì, grazie a lui, un Sindacato agricolo diocesano, con lo scopo di curare gli acquisti in modo collettivo di tutte le materie prime necessarie agli agricoltori e di promuovere il miglioramento delle tecniche di coltivazione; poi fu la volta del Segretariato del Popolo, come centro di consulenza sociale per pratiche amministrative e aiuto ai migranti.
Don Coccino fu ideatore e promotore di molte opere: ristrutturò la chiesa parrocchiale, innalzò il campanile, ricostruì l’edificio del “Ritiro” e fondò l’asilo e l’ospizio. Inoltre diresse, come tesoriere e presidente, le compagnie dei Battuti Bianchi e delle Umiliate, che avevano sede nella chiesetta di San Rocco, oltre alla Veneranda Compagnia della Santissima Vergine del Carmine, con sede nella chiesa parrocchiale.
Don Coccino fu un “prete di strada”, le cui orme si sono impresse su un percorso sicuramente non facile, che richiese impegno, tenacia e fatica. Se oggi la scuola porta il suo nome è perché i più giovani abbiano un buon modello da imitare e siano capaci di seguire l’esempio di quest’uomo eclettico, che andava oltre l’apparenza e predicava il Vangelo con i fatti, in mezzo alla gente, cercando di vivere e capire i loro problemi. Una persona che seppe sempre mantenere lo spirito giovane, grazie a una mente aperta alle novità, sempre al lavoro per il bene dell’uomo.
Gazzetta d’Alba scrisse sul giovane prete un articolo relativo all’accoglienza che gli venne riservata nel giorno del suo solenne ingresso a Piobesi.
Domenica scorsa il piccolo Comune e parrocchia di Piobesi era in grandissima festa pel solenne ricevimento del novello Parroco, D. Giovanni Coccino. Accompagnato da tre Canonici della Cattedrale e da parecchi sacerdoti, giungeva circa le 3pom. fra il suo popolo che lo aspettava ansioso e plaudente. Disceso sotto un grazioso arco trionfale susseguito da grandioso padiglione di tele, veniva accolto con dimostrazioni cordiali dal clero parrocchiale, dal Municipio e dal popolo giulivo, che attorno attorno si accalcava per istudiare nei lineamenti, nella buona grazia e nella suave pietà colui, che sebbene giovane, cominciava ad amare qual nuovo padre. Il Sig. Sindaco, ben interpretando i sentimenti del Municipio e del paese, si compiacque dargli il benvenuto, leggendo un’arringa semplice, ma ispirata ai sensi di squisita cortesia e di edificante pietà. Poi i ragazzi delle scuole maschile e femminile espressero in poesia, un coro di robusti giovinotti cantarono in musica l’affetto, il rispetto e la simpatia che già provavano al primo vederlo. In seguito la scelta musica di Roddi, dando fiato alle trombe, invitava l’immensa calca ad avviarsi alla Chiesa, ove si compirono le formalità di uso. Salito sul pulpito il nuovo Parroco disse un breve discorso, ma così penetrante e così appassionato, che moltissimi fedeli vedemmo asciugarsi le lacrime che calde calde ne inumidivano gli occhi. Un pensiero allora ci corse alla mente: felice il popolo cui Dio destinava un sì buon pastore, e beato il Parroco cui toccava in sorte una sì eletta porzione della vigna del Signore!
Finita la sacra cerimonia, il clero ed il popolo, al quale si univa una buona parte della vicinissima Corneliano, si raccoglieva sulla piazza per udire un’arguta poesia piemontese del conosciuto poeta sig. D. Danna. Poi al suono della banda musicale, passando in mezzo agli svariati apparecchi per l’illuminazione e fuochi artificiali, si raccoglieva alla casa canonica, benedicendo al Signore perché l’avesse così beneficata nella cara persona del suo pastore. Lode al popolo sia di Piobesi, per la solenne dimostrazione data all’inviato del Signore. Una stretta di mano al buon Parroco di Levice ed a quegli altri Sacerdoti che vennero da ben lungi per partecipare a sì deliziosa festa.
Gli uni e gli altri mostrarono di ben capire che l’onore reso ad un novello Parroco non umilia veruno, ma trasvolando per le serene regioni della cordialità, giunge fino al primo parroco che è Gesù Cristo e ridonda a decoro di tutto il ceto.
L’articolo, riportato nella sua versione integrale, è tratto da “Don Coccino Arciprete in Piobesi dal 1883 al 1922” (Scuola elementare di Piobesi, classe V elementare, anno scolastico 1999-2000)
Un’opera incessante, dalla parte della gente
Il giorno dell’ingresso solenne di Don Coccino a Piobesi, il 10 giugno 1883, venne dedicata e letta al nuovo parroco una lunga poesia in piemontese, opera del poeta e cappellano Danna di La Morra. Il testo contiene, in alcuni versi, la sintesi perfetta di quello che questo parroco ha rappresentato per un piccolo paese come Piobesi. Il poeta ne ricorda la «veuja de studié» che, agli occhi di tutti, lo avrebbe destinato alla laurea. Invece, sottolinea con stupore e affetto l’autore, «A la laurea e ai onor / L’ha prefert i Piobesan […] / L’era chiel da Nòstesgnor / Destinà a vòstr Arsiprete, / Destinà a vòst bon pasto». Segue una breve considerazione sull’operato dell’Arciprete: «Bona stima, grand’amor/ E rispet s’è guadagnà. / Tant’dai pòver, che dai sgnor / Chiel sa dè ‘n consei da savi, / Chiel è assiduo a confessé, / Portatissim per i malavi, / Afetuos a predichè. […] Piobes, Piobes fortunà / Che regal t’à fait Nossnor / Con aveite destinà / Don Cocin per tò Pastor! [1] ».
Ecco chi era don Coccino per chi ne conobbe di persona l’operato. L’entusiasmo di questi versi celebrativi in dialetto trova conferma nei pochi documenti in nostro possesso e in altre testimonianze ammirate dei suoi parrocchiani [2]: ogni fonte ci parla di un uomo che, nel corso dei 39 anni trascorsi a Piobesi d’Alba, fu tutto tranne che un prete “ritirato in sacrestia”. Al contrario: curatore delle anime per via dell’abito che portava, si dedicò con grande attenzione anche ai bisogni materiali dei compaesani, persuaso che non potesse «attendere con tranquillità a Dio un paese preoccupato dalla questione del pane [3]».
Studiò perciò a fondo lo stato economico e sociale della sua parrocchia, per cercare di migliorarlo: campagne sfruttate poco e male, reddito pro capite insufficiente a condizioni di vita dignitose, epidemie frequenti, case poco salubri, assenza di acqua potabile, diffuso analfabetismo.
Per rispondere a questa situazione, per prima cosa, il giovane prete di Levice si recò di persona nei prati, nei vigneti e nei campi, per poter insegnare come aumentare la produzione e per incoraggiare la coltura razionale dei bachi da seta, una pratica destinata a durare per tutto il Novecento. Contemporaneamente, cominciò a tenere conferenze su questioni economiche e agrarie, mettendo a servizio del paese le proprie conoscenze: per sua iniziativa, Piobesi fu dotata di un impianto per l’acqua potabile e di uno per l’elettricità.
Concretamente, tuttavia, il suo nome resta legato soprattutto a tre grandi interventi, che ne fecero un parroco caro ai suoi compaesani e una personalità stimata in tutta la diocesi albese.
Il più importante, sicuramente, fu la creazione della prima Cassa rurale cattolica della Diocesi, istituita a Piobesi d’Alba il 29 luglio 1894 [4] proprio grazie al nuovo parroco, che diverrà acceso propagandista di questa forma di risparmio, finalizzata al mutuo aiuto di agricoltori e artigiani. In diocesi, alla Cassa rurale di prestiti, società cooperativa in nome collettivo di Piobesi, si aggiunsero, nel giro di un anno, altre sette Casse rurali, che decisero di riunirsi in una federazione diocesana, con lo stesso don Coccino come presidente: il suo lavoro e il successo della banca piobesina, infatti, furono tra i responsabili di questa fioritura [5].
Responsabili, cioè, di un fenomeno destinato a cambiare per sempre la situazione del cuneese, un’area storicamente restia ad apprezzare la funzione di banca, credito, investimento. In modo particolare nelle campagne, la Cassa rurale fu l’unica forma di risparmio ad avere successo nell’ultima parte dell’Ottocento, soprattutto se creata e sostenuta da movimenti sociali di matrice cattolica. Basata sullo spirito solidaristico di tutti i soci, la Cassa rurale poteva nascere senza capitali propri, ma utilizzando somme prese a prestito presso Banche popolari o Casse di risparmio, poi concesse ai soci per le loro modeste esigenze. Il vantaggio di questa realtà creditizia era proprio il coinvolgimento diretto e responsabile dei ceti agricoli, in forme di associazione cooperativa. La base sociale della Cassa rurale era dunque strettamente locale e dotata di una forte connotazione confessionale: tra i requisiti richiesti, oltre a una provata moralità e onestà, vi era infatti la fede cattolica. L’azionariato era formato da quote molto basse, ma si offriva la possibilità di depositare e avere prestiti a condizioni più favorevoli rispetto a quelle praticate nelle più grandi banche regionali o provinciali. Negli interessi degli ecclesiastici che partecipavano a tali iniziative era il possibile avvio, a partire da queste, di un processo di avanzamento economico e sociale delle zone coinvolte [6].
La presenza di giovani parroci come Don Coccino tra i promotori della fondazione di questi piccoli istituti di credito si spiega, poi, con un loro più generico impegno nella promozione di forme di cooperativismo nelle campagne albesi e roerine, al fine di trovare soluzione ai problemi più vivi della popolazione: tra questi, già ricordati in apertura, bisogna menzionare anche la pratica dell’usura, che doveva il suo successo presso le piccole comunità rurali proprio alla mancanza di altre fonti di finanziamento.
L’attivismo del clero era stato spronato dall’enciclica papale Rerum Novarum, emanata da Leone XIII il 15 maggio 1891 e recepita anche nella nostra diocesi come un invito a favorire il risveglio sociale che un’attività come quella di credito poteva garantire, sempre se fondata su forme di cooperazione. La fioritura delle Casse rurali cattoliche si accompagnò, dunque, alla creazione di un Comitato diocesano all’interno del clero, denominato Società di mutuo soccorso tra gli ecclesiastici della diocesi. A questo seguirono i Comitati parrocchiali, fra i quali, a Piobesi, il Circolo Cattolico di San Pietro, che fondò il Segretariato del Popolo (1896): tra i compiti di quest’ultimo, disse don Coccino, vi era il «far per quanto possibile del bene a tutti e gratuitamente secondo lo spirito della carità cristiana, per essere con il tempo fonte di copiosi, utilissimi frutti morali ed economici»[7]. Il Segretariato fu poi trasferito ad Alba per volere di Monsignor Re, per svolgere attività di consulenza sociale nello sbrigare varie pratiche amministrative.
Solo con l’avvento del fascismo tutte le forme associative di matrice cattolica entrarono in crisi. Ciò è particolarmente evidente per quanto concerne le Casse rurali: per indebolire i partiti popolari, infatti, il governo fascista cercò in tutti i modi di colpirne le attività sociali.
Piobesi non fece eccezione nemmeno in questo caso, sebbene, nel cuneese, la prima a fallire fosse stata la Cassa rurale di Bagnolo (1923): a questa erano legate per credito molte casse più piccole. Al fallimento contribuì, inoltre, la linea adottata dalla Santa Sede, che chiese le immediate dimissioni di tutti gli ecclesiastici ricoprenti incarichi che comportassero responsabilità finanziarie. La fiducia dei piccoli risparmiatori diminuì anche per questo e le sole Casse rurali a sopravvivere furono quella di Alba (oggi Banca Regionale Europea) e quella di Vezza, oggi Banca di Credito Cooperativo di Alba, Langhe e Roero.
L’opera di Don Coccino in ambito sociale, tuttavia, rimase quella di un parroco di grande apertura culturale, che si fece carico di svariate iniziative per risvegliare la cooperazione dei propri compaesani e fece di tutto per smuovere l’individualismo del mondo agricolo, per educare ed elevare culturalmente le nuove generazioni, per far maturare la coscienza dei problemi di tutti e per cercarne la soluzione. Ai suoi parrocchiani l’arciprete pensò anche nel realizzare la seconda delle sue opere più importanti: i lavori di ristrutturazione e ampliamento della chiesa parrocchiale di San Pietro in Vincoli, dopo il precedente rifacimento databile alla metà del Seicento.
Riguardo alla “ristorazione” dell’edificio, Don Coccino scrisse tra i suoi appunti: «Questa Chiesa Parrocchiale, salvo il Presbiterio e Coro, nel rimanente era assai male organizzata. Difficilmente si poteva accedere alle Cappelle, perché la loro volta si trovava a soli 4 metri di altezza dal pavimento. Era quasi priva di luce e di ventilazione, per cui si formava molta umidità. Di più, non era sufficiente per contenere comodamente la popolazione. Per tali considerazioni si concepì l’idea di una ristorazione radicale della Chiesa stessa, per cui venisse ridotta a miglior forma e si provvedesse alle principali necessità di convenienza e decoro, tenendosi però alla maggior semplicità di forma per non aggravare la popolazione di una spesa straordinaria. Ottenuta l’approvazione, benedizione ed incoraggiamento dello Illustrissimo et Reverendissimo Monsignor Carlo Lorenzo Pampirio Vescovo della Diocesi, venne per tale opera costituito un Comitato Promotore […]
Si diede principio alla ricostruzione della Chiesa il giorno due aprile 1886. In tale anno furono compiute la navata di mezzo e la laterale a notte. Nel 1887 fu innalzata dalle fondamenta la navata laterale a giorno e demolito il campanile che si trovava in facciata, fu costruito il nuovo che sorge dalla parte opposta, vicino all’abside. Il giorno 8 maggio, previa autorizzazione, furono benedette pietre di marmo colla scritta – 1887 – a memoria dei benefattori più insigni della ristorazione della chiesa. La fondamentale, nel campanile, venne collocata dall’Illustrissimo Signor Conte Roero Alessandro per mezzo del suo Agente e Rappresentante Sig. Gatti [8]».
In pratica, i lavori diedero alla chiesa l’aspetto architettonico che ancora oggi conserva. Essi consistettero nel rifacimento e ampliamento delle navate laterali, prima basse, strette e buie, ora più alte e dotate di ampie finestre, con vetrate trasparenti.
Anche sulla facciata furono ricavate due finestre semicircolari e il campanile basso e cadente fu rimosso e sostituito con l’odierno, sistemato in fondo alla navata di destra e alto 36 metri. Nella parte finale delle navate di sinistra e destra furono ricavate due cappelle, chiuse alla vista dell’altare da due pareti, nelle quali rimaneva aperta solo una piccola porta. L’abside, prima in stile barocco, fu coperta da un sottile muro e su di essa fu collocata una grossa tela (ancora oggi visibile) in una ricca cornice barocca, raffigurante San Pietro in catene, con San Paolo e la Vergine Maria. L’interno fu rinnovato con la posa di una nuova pavimentazione, un nuovo battistero, nuovi banchi e sedie per il coro. La novità maggiore, tuttavia, fu l’acquisto di un antico organo a canne, opera dei fratelli Vittino di Centallo, probabilmente tolto per volere dello stesso don Coccino proprio a un’antica chiesa di Levice, suo paese natale [9]. Lo strumento fu sistemato su una bella balconata in legno dipinto e raffigurante antichi strumenti musicali.
Particolarmente curate furono le decorazioni, tutte rifatte o realizzate ex novo. Preziosa testimonianza superstite di quanto affermato, oltre alle precise annotazioni di don Coccino stesso, è il soffitto della cappella che chiude la navata di sinistra, oggi restaurato e riportato alla vista, dopo essere rimasto nascosto per lungo tempo sotto unaltro soffitto, più basso. L’elemento fu pensato in stile neogotico: due campate con volta a crociera che poggiano su capitelli lineari chiari sistemati in corrispondenza dell’incastro con i pilastri. L’intero soffitto fu finemente decorato dai fratelli Finati di Alba, che pensarono di raffigurarvi un cielo stellato di colore blu intenso, con teste d’angelo al centro di ogni campata, disposte entro un cerchio [10].
Colpisce la minuzia con la quale il parroco segnò i nomi di tutti coloro che collaborarono ai lavori, le giornate e le ore di lavoro, i pagamenti.
Una minuzia che ritroviamo anche nella registrazione di tutte le fasi del terzo e ultimo importante intervento voluto dall’arciprete di Levice nel paese roerino: la ristrutturazione del locale Ritiro delle Povere Figlie di Sant’Angela Mericia.
Quest’opera fu così cara a don Coccino che scrisse a proposito di essa un quaderno dal titolo Memorie riguardanti il Ritiro delle Povere Figlie di Piobesi d’Alba[1], dove sintetizzò la sua storia e riportò tutte le migliorie da lui intraprese. La casa era stata aperta nel 1840 per volere dell’arciprete di Piobesi Giovanni Domenico Nielli che, con mezzi propri, aveva realizzato questo spazio per il ricovero e l’educazione delle ragazze del paese. Alla sua morte, gli eredi si preoccuparono di regolarizzarne lo statuto. Contribuirono a questo risultato anche il parroco Giuseppe Sicca e Monsignor Fea, vescovo di Alba, che pagarono in prima persona per sostenere il Ritiro. Nel 1845 l’esistenza della casa fu minacciata da unincendio, che distrusse gran parte della struttura: i lavori di ricostruzione furono finanziati in gran parte con offerte private, tra le quali spicca il finanziamento delle sorelle Boassi di Montà, una delle quali fu in seguito nominata economa e direttrice del Ritiro, dal 1871 al 1906.
Quanto a don Coccino, egli fece innanzitutto realizzare, in qualità di presidente del Ritiro, la cappella interna, decorata dal pittore Fassino di Vezza e finanziata anche dalle offerte delle Figlie del Ritiro. Dal 1909, poi, con il concorso dei benefattori viventi e delle ospiti della casa, egli avviò una serie di lavori di restauro e ampliamento dello stabile, aiutato, in questo suo intento, dal lavoro di molti piobesini. Fino ad allora, esso comprendeva un refettorio, una stanza da usare come scuola, un camerone per i telai e un dormitorio. Furono aggiunti un salone per uso ospedale e il grande cortile fu recintato; un’aula fu destinata a ricovero per anziani che necessitassero di assistenza e cure.
Nel 1914 don Coccino ottenne anche dai Superiori del Suffragio di Torino l’assegnazione di tre suore per il Ritiro, l’una come direttrice, l’altra come maestra elementare, la terza come direttrice dell’asilo infantile da lui voluto: la casa completava così il quadro delle innovazioni volute dall’arciprete, che ne dedicò alcuni spazi alla prima istruzione dei più piccoli.
Nello stesso 1914 si festeggiò il centenario dalla prima fondazione, durante il quale il presidente e parroco di Piobesi parlò così: «Chi sostiene il mondo da fatale rovina non sono né la scienza umana con le sue aberrazioni, né il progresso con le sue invenzioni, né la guerra, né i cannoni. Tutte queste cose senza la preghiera e la fede non servono che alla distruzione del genere umano e della civiltà, come vediamo nella conflagrazione europea e mondiale. Quello che trattiene il mondo dalla rovina e lo preserva dalla crudeltà sono le preghiere degli umili».
QUESTO ARTICOLO E’ APPARSO SUL N. UNO di “Roero Terra Ritrovata”
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NOTE
[1] Cfr. nota 1.
[2] Mi riferisco, in particolare, alle dettagliate informazioni che ho potuto avere a proposito dell’opera di Don Coccino da Giuseppe Boarino, una vera miniera d’oro di notizie e curiosità.
[3] Sono parole contenute nell’elogio funebre di Don Coccino, tenuto a Piobesi dal Rev. Agostino Vigolungo.
[4] La notizia della nascita di una nuova Cassa Rurale si trova su Gazzetta d’Alba, 14 luglio 1894.
[5] Su Alba Pompeia, anno 1990, l’economista e storico Renato Lanzavecchia, scrive: “ Nel 1896 era stata costituita anche la Federazione delle Casse Rurali della diocesi di Alba, presieduta da Don Coccino. All’esposizione di Torino del 1898 essa presentò un quadro statistico del quale risultava che le 14 casse rurali della diocesi, al 31 dicembre 1897, avevano accresciuto fino a 847 i 305 soci fondatori”.
[6] Giovanni Morzenti, Breve storia del credito in provincia di Cuneo, Cuneo, 1994, pp. 51-58
[7] Gazzetta d’Alba, 11 luglio 1896.
[8] Lo si legge nel Giornale dell’Opera di Ristorazione della Chiesa Parrocchiale di Piobesi, scritto a mano da Don Coccino. In esso sono segnati i lavori, le persone che se ne occuparono, le spese.
[9] Sono ancora notizie che ricevo da Giuseppe Boarino.
[10] Per la storia della Chiesa parrocchiale di San Pietro in Vincoli e tutti gli altri interventi, cfr. Sulle orme del passato.Ricerche di storia, arte, vita religiosa a Piobesi d’Alba, Corneliano, 1995, pp. 27- 41.
[11] Oggi risulta introvabile, ma è stato consultato per la stesura di Don Coccino. Arciprete in Piobesi dal 1883 all 1922, Corneliano, 2000. Le pp. 17- 19 di questo testo sono mia fonte per quanto riguarda il Ritiro e gli interventi di Don Coccino su di esso.