di Elena Botto e Lidia Destefanis
Se proviamo ad immaginare la scuola nell’800, dobbiamo pensare a un contesto molto diverso rispetto a quello moderno, poiché solo verso la metà del secolo essa subì i numerosi cambiamenti, che la portarono ad avvicinarsi ad un modello di scuola più attuale, maggiormente attento alle esigenze dei fanciulli.
Nonostante Carlo Felice si fosse premurato nel 1822 di emanare un Regolamento per rendere obbligatoria l’istruzione primaria, durante il periodo della Restaurazione il problema dell’analfabetismo non venne quasi per nulla preso in considerazione e il provvedimento del re rimase esclusivamente un atto formale.
A partire dal 1827, però, sulla spinta del prete cremonese Ferranti Aporti, iniziarono a diffondersi i primi asili d’infanzia: strutture private in cui venivano accolti i bambini per dare loro istruzione e assistenza. Nacquero istituti non solo per la cura dei bambini maschi in età prescolare, ma anche per l’educazione delle bambine che fino a quel momento non avevano potuto accedere all’istruzione pubblica.
Lo sviluppo di tali iniziative private costrinse il Magistrato della Riforma, l’organo di controllo della scuola, ad adottare nuove disposizioni anche per le scuole pubbliche, che nel 1840 sfociarono in una Istruzione ai maestri delle scuole elementari per dare un principio di uniformazione ai programmi di insegnamento.
Inizialmente non erano richiesti titoli specifici per svolgere la professione d’insegnante e ci si basava, per stabilirne l’idoneità, sulle raccomandazioni o sulla conoscenza diretta del candidato. Solo a partire dal 1844 furono istituiti dei corsi obbligatori per acquisire il titolo necessario per l’insegnamento. Questo cambiamento fu introdotto dal re Carlo Alberto che mirava a laicizzare l’istruzione pubblica, fino ad allora in mano alla Chiesa. Da quel momento in avanti, infatti, non furono più solo i sacerdoti a ricoprire l’incarico di insegnante, ma anche i laici.
Proprio verso la metà dell’800 Carlo Alberto nominò un nuovo capo del Magistrato della Riforma agli studi, il laico Cesare Alfieri, il quale si impegnò per portare miglioramenti nel campo dell’istruzione. Nonostante tutto, però, a livello generale il problema dell’analfabetismo rimase e interessò ancora il 70 per cento della popolazione del Regno di Sardegna.
Nel novembre 1859 venne approvata dal Parlamento Subalpino la legge Casati, subito promulgata dal re Vittorio Emanuele II, con la quale si riordinava l’istruzione a tutti i livelli. Il provvedimento entrò in vigore nel 1860, nel Regno di Sardegna e, dopo l’Unità, in tutta Italia. Riguardava principalmente l’istruzione secondaria e superiore, mentre dava poche indicazioni sulla scuola elementare, stabilendo tuttavia l’obbligo per i primi due anni.
La legge incentivò ulteriormente la frequenza scolastica, tanto che i comuni dovettero provvedere per rispondere al bisogno della comunità. Accanto alle scuole maschili nacquero le classi femminili, in cui operavano maestre.
Nel 1923, la legge Gentile stravolse completamente la scuola, dandole un nuovo assetto e inquadrandola in modo totale, ponendo le basi dell’odierno sistema scolastico. I programmi avevano lo scopo principale di far comprendere agli allievi l’importanza del senso di appartenenza alla nazione. La scuola elementare divenne obbligatoria per tutti e chi non rispettava il decreto incorreva in pesanti sanzioni.
Tali provvedimenti comportarono, a livello locale, cambiamenti anche nelle amministrazioni delle scuole rurali, come dimostrano alcune testimonianze dei comuni del territorio roerino.
Nei nostri paesi, la scuola era, generalmente, ubicata in un edificio situato nei pressi del palazzo comunale o venivano utilizzate alcune stanze dello stesso. Solitamente le aule erano fatiscenti e povere di arredi: si trattava di semplici banchi e panche, che erano spesso descritti come insufficienti, malridotti e, il più delle volte, poco adatti ad assolvere la loro funzione. Un episodio emblematico, che rende l’idea della condizione in cui i maestri operavano, risale all’ottobre del 1844, quando vengono verbalizzati dal sindaco i necessari restauri delle stanze della casa comunale di Montà adibite a scuola, a seguito di un incidente che vide coinvolto l’esattore dei contribuiti: «[…] siccome la solita sala destinata al medesimo in tali circostanze si trovava in cattivo stato di riparazioni e minacciava rovina, lo si destinò nella sala attigua detta della scuola e appena il medesimo vi entrò in compagnia di 12 o 13 persone, precipitò il pavimento con alcune persone senza però questi farsi alcun male».
Anche la condizione in cui erano costretti a vivere i maestri, o rettori di scuola, come venivano chiamati all’epoca, non era delle più piacevoli. L’insegnante non aveva solo il compito di occuparsi della formazione dei fanciulli, ma, essendo un ecclesiastico, anche di prestare servizio alla comunità per svolgere diverse mansioni religiose, quali celebrare messa, confessare, officiare le rogazioni e, in alcuni casi, i matrimoni.
I contratti o capitolati, stipulati dall’amministrazione comunale con i vari maestri, avevano generalmente una durata triennale, ma tante volte anche solo annuale. Questo generava una situazione di precarietà lavorativa, legata anche alla scarsità di posti in rapporto alla quantità di sacerdoti che ambivano a ricoprire tale carica. Ovviamente, per chi non veniva assunto, si prospettava una condizione di miseria e povertà.
Al momento della nomina in genere si presentavano diversi candidati e la scelta veniva fatta non sulle loro particolari capacità didattiche e pedagogiche, bensì sulle loro richieste di compenso, che dovevano essere il più contenute possibile.
La retribuzione era rateale e non sempre veniva rispettata. Ciò provocava delle lamentele da parte dei rettori, che raramente però venivano accolte e anzi facevano, a volte, correre loro il rischio di essere licenziati. Oltre alla somma in denaro, piuttosto generosa rispetto alle retribuzioni dell’epoca, essi venivano compensati con beni materiali, quali scorte di cibo e legname. Inoltre, il comune si incaricava di trovar loro un’abitazione in quanto, il più delle volte, i maestri non erano cittadini residenti, ma provenivano da altri paesi, anche non limitrofi. Succedeva, talvolta, che alcuni candidati si presentassero muniti di raccomandazioni e ciò veniva tenuto in grande considerazione dalle pubbliche amministrazioni che dovevano decidere su chi far cadere la loro scelta. Dal momento in cui venne richiesto agli insegnanti di possedere un titolo di studio per poter svolgere la professione, la situazione cambiò radicalmente e i comuni iniziarono a faticare nel trovare personale adeguato.
A questo proposito, a Montà accadde un fatto particolare; il Comune stesso chiese ad un uomo del paese, che aveva diverse figlie, di far frequentare a una di esse la scuola di metodo, assicurandogli che, una volta ottenuta l’abilitazione necessaria, l’Amministrazione comunale si sarebbe immediatamente adoperata per dare alla figlia il posto di lavoro. Il fatto è indicativo, se si pensa che in quel periodo non erano molte le persone che possedevano i titoli idonei all’insegnamento e anzi, nonostante i decreti statali, spesso le pubbliche amministrazioni dovevano avvalersi di insegnanti appartenenti al clero. È perciò plausibile che il Comune facesse leva per avere degli insegnanti locali di cui poter disporre.
Accadde però che, mentre si aspettava che la giovinetta Teresa Patrizia Barelli terminasse gli studi, venne assunta per insegnare nella classe femminile la maestra Margarita Barberis, che si rivelò fin dall’inizio un’ottima insegnante. Quando finalmente la signorina Barelli ottenne l’idoneità all’insegnamento, la pubblica amministrazione non ci pensò su due volte e, per mantenere la promessa fatta, licenziò la maestra Barberis, anche se l’anno scolastico era iniziato ormai da qualche mese. Questo fatto fece nascere delle serie proteste da parte della maestra Barberis, che si rivolse anche al Provveditorato agli Studi, il quale, visto il buon operato dell’insegnante, ne perorò la causa. Alla fine si giunse ad un compromesso: la maestra Barberis avrebbe potuto terminare l’anno scolastico a Montà, visto che, nel frattempo, la signorina Barelli aveva trovato impiego presso la scuola di Pralormo, ma alla fine del periodo doveva considerarsi licenziata.
Il numero effettivo degli alunni che frequentavano regolarmente la scuola, nella seconda metà dell’800, era di un centinaio, ma poteva aumentare nel periodo invernale, tanto che la pubblica amministrazione era costretta a provvedere alla sistemazione dei bambini in più aule e all’assunzione di un coadiutore del rettore di scuola. Tale situazione si verificava tutti gli anni, perché anche i figli dei contadini partecipavano alle lezioni, ma solo nel periodo in cui la campagna non richiedeva più la loro manodopera.
Nelle scuole si insegnava innanzitutto l’alfabeto e si davano i primi rudimenti della lingua latina, in seguito le scienze e la matematica. Si prediligevano gli insegnamenti di grammatica e retorica, che miravano a preparare i ragazzi alla futura vita sociale. Tra i compiti del maestro vi era anche quello di insegnare la dottrina cristiana e la morale cattolica, affinché gli alunni assumessero dei comportamenti rispettosi e disciplinati.
L’anno scolastico iniziava a novembre e finiva nella prima metà di settembre, in modo che i ragazzi avessero circa otto settimane di vacanza tra la fine di un anno e l’inizio del successivo. L’orario consisteva in tre ore di lezione al mattino e tre al pomeriggio, ogni giorno ad esclusione del giovedì e dei festivi.
L’insegnante doveva tener conto delle capacità di ciascun alunno, seguendo un metodo individuale, che consisteva nello spiegare un concetto ad un alunno, assegnargli un esercizio, per poi passare ad un altro studente. Si usava tale metodologia didattica perché nelle classi erano presenti bambini di ogni età, ciascuno con un livello d’istruzione diverso. Agli inizi del ‘900, alcuni insegnanti attenti ai bisogni dei bambini, iniziarono ad applicare metodi innovativi per l’epoca, quali escursioni sul territorio e attività laboratoriali, per rendere più coinvolgenti le lezioni.
La disciplina era ferrea e la si otteneva anche utilizzando punizioni corporali, con non rare proteste però da parte dei genitori che, a volte, si lamentavano anche della didattica stessa, soprattutto in merito all’insegnamento della dottrina cristiana. Queste rimostranze potevano diventare motivo di licenziamento, se l’insegnante non si impegnava a cambiare. A questo proposito a Canale, nel 1860, fu presentata la proposta di licenziare la maestra Catterina Pirale. All’interno dell’assemblea comunale non tutti i consiglieri erano favorevoli e, pertanto, si formarono due fazioni: una favorevole e l’altra contraria al licenziamento. Per arrivare ad una decisione, il sindaco suggerì di effettuare un’indagine sul lavoro svolto nella scuola dalla maestra. Dalle informazioni raccolte emerse che, durante le lezioni, l’insegnante trascorreva buona parte del tempo «nel fare calzetta ed altri lavori», anziché insegnare; talvolta, dopo aver assegnato l’attività alle alunne, abbandonava la scuola «per un tempo notabilissimo recandosi a casa, or altrove».
In opposizione alle leggi e ai regolamenti dell’Istruzione Pubblica e contro l’ordine pubblico e sociale, la maestra Pirale tralasciava l’ordinario insegnamento della maglia e dell’ago e faceva ripetizione alle sue allieve solamente mediante pagamento di «convenuta mercede».
Questa “insegnante” aveva, inoltre, la cattiva abitudine di «pronunciare, e prorompere in parole affatto sconvenienti nella scuola con scandalo alle figliuole», di proferire discorsi «villani ed ingiuriosi contro le sue coadiutrici, e talvolta contro le allieve con grave scandalo».
In data 20 marzo, poi, fu accusata di aver insultato il maestro Casavecchia, invitato per gli esami semestrali nella scuola femminile, «dandogli del paesano, vaccano» ed altri insulti. Per completare il quadro, la maestra Pirale, non si preoccupava di arrivare a scuola con un ritardo di un’ora o, addirittura, di saltare la scuola senza aver richiesto il permesso o avvisato i superiori.
Questa testimonianza ci permette di capire come, già all’epoca, non tutti gli insegnanti rispettassero gli obblighi scolastici a cui erano tenuti e anzi assumessero comportamenti che li potevano portare al licenziamento.
Nei vari comuni si sentì l’esigenza di trovare locali adeguati e funzionali per l’insegnamento scolastico e non solo nel capoluogo, ma anche nelle frazioni, che normalmente si trovavano anche a cinque o sei chilometri di distanza. Grazie a queste iniziative si diede la possibilità ai bambini residenti nelle varie borgate di poter frequentare la scuola. All’interno degli istituti scolastici, che diventavano sempre più grandi, divenne necessario assumere nuovo personale. A Canale, per esempio, nel 1869 compare per la prima volta viene assunto un bidello, con diverse mansioni quali aprire e chiudere la scuola, suonare la campana per avvisare l’inizio delle lezioni, pulire i locali e segnalare alla pubblica amministrazione il materiale utile alle classi.
Nonostante le ingenti somme di denaro richieste all’amministrazione comunale per far fronte a tutte le spese necessarie, la scuola rimase comunque una delle priorità da sostenere ed incentivare. Verso la fine dell’ottocento vennero istituiti, sia a Canale che a Montà, gli asili infantili, in cui venivano accolti i bimbi in età prescolare, per assisterli e dar loro un’educazione fisica, intellettuale, morale e religiosa, utile a prepararli alla scuola elementare. L’asilo non era completamente a spese del comune, ma era prevista una retta a carico dei genitori dei bambini più facoltosi. Esso veniva gestito da un Consiglio di Amministrazione, composto da un presidente e alcuni consiglieri, che rimanevano in carica per un quadriennio. Il Consiglio aveva il compito di nominare le maestre, occuparsi del bilancio dell’istituto e stabilire il regolamento interno. A osservare direttamente il buon andamento dell’asilo, coadiuvando le insegnanti nel momento di bisogno, venne creata la figura delle ispettrici, anch’esse nominate dal Consiglio. Si trattava generalmente delle mogli dei maggiorenti locali ed il loro ruolo era quindi più di facciata che di sostanza.
Solo a partire dalla seconda metà dell’800 e nella prima metà del ‘900, i comuni di molti paesi del Roero realizzarono strutture ed edifici al fine di creare locali appositi per la scuola.
Parallelamente a ciò, anche nelle frazioni sorsero scuole, a volte in aule di fortuna, le cui classi erano miste, a differenza di quelle del capoluogo dove si mantenne la distinzione tra classi maschili e femminili. Nelle borgate, generalmente, si frequentavano le prime classi della scuola elementare, mentre, per proseguire il percorso di studi, bisognava recarsi nel capoluogo. Raggiungere il paese non era semplice: si trattava di percorrere a piedi diversi chilometri, in condizioni disagevoli, specialmente in alcuni periodi dell’anno. Ciò fu certamente uno dei motivi di abbandono scolastico.
Nello stesso periodo si organizzarono delle scuole serali per l’alfabetizzazione degli adulti, con classi separate per gli uomini e per le donne. Questo fatto dimostra, una volta di più, quanto nel nostro territorio fosse importante l’istruzione e quanto questa avesse assunto un notevole peso sociale.